Clementina Fatta (psicologa)
Una volta al mese la psicologa Clementina Fatta proporrà un film per invitare i ragazzi a fare un lavoro interiore e al confronto con il gruppo.
I film da vedere insieme
Dog Gone - Lo straordinario viaggio di Gonker
Da Cristiana Puntoriero – www.cinematographe.it
Dal 13 gennaio su Netflix è disponibile Dog Gone – Lo straordinario viaggio di Gonker, il film con Rob Lowe su una famiglia alla ricerca del proprio cane scomparso, tratto da una storia vera.
Scritto da Toutonghi Pauls e pubblicato in Italia per Bompiani, “Smarrito cane – Lo straordinario viaggio di Gonker” è il libro che raccoglie la storia vera della famiglia Marshall e dello smarrimento del loro golden retriever nel 1998, da parte del genero della coppia e cognato del giovane proprietario del cane Fielding. A distanza di venticinque anni dai fatti, Rob Lowe produce il film che adatta questa incredibile storia di coesione familiare dal titolo Dog Gone – Lo straordinario viaggio di Gonker, disponibile in streaming a partire dal 13 gennaio su Netflix.
Modificando alcune parti dalla versione originale narrata da Toutonghi, il dramma riscritto da Nick Santora sembrerebbe un classico racconto adatto a tutti su una scomparsa momentanea di un cane e il suo ritrovamento, il cui unico obiettivo è quello di omaggiare il rapporto privilegiato fra il mondo canino e quello umano e il loro legame profondo che s’instaura nel corso degli anni. Dog Gone è esattamente tutto questo: prevedibile, strettamente emozionale, un cliché. Ma la sua trama così scontata sorregge in verità degli aspetti tutt’altro che banali, come l’accettazione di un genitore delle fragilità fallimentari di un figlio e di un malessere fisico e psicologico rimasto a lungo latente e potenzialmente mortale.
Dietro infatti alle sue fattezze da feel good movie costruito sull’incosciente decisione di adottare un cane di uno studente ventunenne appena lasciato, laureato e senza prospettive tornato a casa dei genitori per ponderare una scelta sul futuro che tarda a palesarsi, si fa spazio, avanzando in parallelo, un coming of age di responsabilizzazione e adesione all’età adulta che dà al film diretto da Stephen Herek un valore aggiunto, in grado, per la limpidezza con cui ci è restituito, di parlare forse a qualche giovane ‘perso’ il quale potrebbe sentirsi compreso nel faticoso tragitto simbolico che vede riflesso nel personaggio di Fielding.
La perdita di Gonker per un’imperdonabile leggerezza del suo padrone, e la task force che si mobilita per trovarlo dentro e oltre ai confini del quartiere, coinvolgendo stampa, associazioni animaliste e amanti dei quattro zampe, esalta valori cari al cinema domestico americano come la cooperazione reciproca e il sostegno dalle autorità locali, traccia tematiche che fa da spalla al nucleo relazionale più importante della storia: quella fra il solido e concreto padre John (Rob Lowe) e suo figlio ancora indeciso su chi vorrebbe essere, interpretato con sorprendente bravura dall’attore (piuttosto attivo su TikTok) Johnny Berchtold.
È loro infatti il viaggio on the road sui monti Appalachi metafora dell’incontro/riconciliazione che avverrà sul finale fra Gonker e Fielding, costruito su tragitti a piedi, discorsi a viso aperto, pernottamenti qua e là e una sofferenza protratta e nascosta a lungo dal giovane protagonista che aggiunge un sapore cupo e amaro piuttosto inaspettato.
Dog Gone – Alla ricerca di Gonker dunque possiede quella levità giocosa e commovente che contraddistingue molti film sugli animali (Hachiko, Io & Marley), i quali riescono a colpire soprattutto chi un cane lo ha o lo ha avuto, con tanto di sequenze sui guai domestici dovuti alla stazza dell’amico a quattro zampe, il ralenti finale della corsa all’abbraccio, l’ammiccamento sulla simpatia e la loro irresistibile fotogenia. Eppure, con l’aggiunta ponderata di elementi narrativi più concreti e drammaturgicamente consistenti, si rivela essere un’operazione meno leggera di ciò che fa apparire, suggerendo quanto anche un cane idealmente non giudicante verso nessun padrone perdente o strambo che sia, possa ispirare a sua volta anche un genitore ad essere tale.
Anne Frank, la mia migliore amica
Da Cristiana Puntoriero – www.cinematographe.it
A pochi giorni dalla celebrazione mondiale della Giornata della Memoria istituita ogni 27 gennaio, anche il cinema a suo modo contribuisce al ricordo delle vittime della Shoah. Non solo tramite programmazione televisiva nella proposta ciclica di pellicole che hanno fatto la storia, ma nell’aggiunta al catalogo digitale di nuove opere, il cui intento è quello di rivolgersi alle nuove generazioni per non dimenticare.
In questa volontà rievocativa Netflix ha presentato dal 1° febbraio 2022 il film biografico Anne Frank, la mia migliore amica, l’ultimo film dell’olandese classe ‘47 Ben Sombogaart che ricostruisce il profondo legame fra la giovane ebrea tedesca autrice del celebre diario e Hanneli Goslar, sopravvissuta a Bergen-Belsen e ora ex infermiera novantaquattrenne.
Presentato nel settembre del 2021 al Film by the Sea Film Festival in Olanda, la realizzazione intende far conoscere la figura della Goslar ad un pubblico quanto più possibile trasversale, biforcando il racconto su due piani temporali: quello della pre deportazione nella Amsterdam piegata alle prime leggi razziali, e quello all’interno del campo di concentramento, dove la Frank, a differenza dell’amica, trovò la morte a pochi giorni dalla liberazione.
Anne Frank, la mia migliore amica: la stessa affinità, destini differenti
Opposte per carattere ma forse per questo così in assonanza, il film delinea il legame delle due sulla scia della loro diversa inclinazione: Anne (Aiko Beemsterboer), spiccatamente esuberante e temeraria, Hanneli (Josephine Arendsen), invece, più introversa e coscienziosa, segnata da un’educazione rigida e un senso di responsabilità familiare che la vedeva occuparsi con premura alla sorella più piccola. Il flashback attivato dal ricordo della protagonista riporta indietro le dinamiche adolescenziali delle due compagne di scuola fra spensieratezza e sogni per il futuro, e l’avvicinarsi della paura per la progressiva ghettizzazione della comunità ebraica in tutta Europa.
Arrestate e deportate entrambe a Bergen-Belsen nella Bassa Sassonia, seppur in tempi diversi a seguito del periodo di clandestinità della famiglia Frank e i due mesi a Birkenau di Anne, le amiche furono internate in due settori adiacenti ma separati e riuscirono ad avere un solo contatto, quello in cui Hanneli racconta di aver lanciato all’amica un pacchetto contenente un pezzo di pane e un paio di calzini per la sorella Margot.
Fra Amsterdam e Bergen-Belsen: il film di Ben Sombogaart si muove sul doppio piano temporale per raccontare il potere salvifico dell’amicizia e del ricordo
Optando per un avvicinamento televisivo, dove a prevalere sono toni meno realistici anche nella rappresentazione non evitabile della violenza nel campo e delle condizioni di vita dei deportati, Anne Frank, la mia migliore amica si muove nella valorizzazione dell’amicizia come potere salvifico e duraturo, onorando due vite che fatalmente hanno avuto percorsi simili ma destini opposti. La sceneggiatura di Marian Batavier e Paul Ruven si rivolge infatti ad un pubblico di coetanei delle protagoniste, lasciando spazio all’evocazione emotiva ed estetica del tempo della speranza, illuminato con toni vivaci anche nelle scelte cromatiche dei costumi e della scenografia, e quello dello decisamente più scuro e impenetrabile di Bergen-Belsen.
Tuttavia di Anne Frank, la mia migliore amica bisognerebbe scindere il valore artistico, probabilmente non così indelebile e determinante come operazioni precedenti sul tema, e quello meramente umano e sociale, nel nobile intento di proseguire ad usare il Cinema come mezzo privilegiato alla condivisione della Memoria tramite le testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto. Come strumento, cioè, di conoscenza agli orrori del passato, che non dovranno mai essere il presente o, ancor più, il futuro.
Gli sdraiati
Da Teresa Monaco – www.cinematographe.it
Hanno le loro regole, i loro perché, cercano di sopravvivere in un mondo che vorrebbe annullarli, che non li comprende. Sono quelli che guardano il mondo da un’altra prospettiva, sono Gli Sdraiati e hanno il privilegio di essere in bilico tra chi li vorrebbe ancora bambini puri e senza segreti e la voglia personale di crescere, essere indipendenti, scoprire il mondo senza essere vincolati da nessun filo d’Arianna.
Sono loro i protagonisti del nuovo film di Francesca Archibugi che, ispirandosi all’omonimo libro di Michele Serra, porta sul grande schermo una lotta generazionale e uno scontro senza precedenti tra genitori e figli. Un’opera in cui l’appellativo di sdraiati è solo un pretesto periferico per ricollegarsi al romanzo, dal momento che per tutta la durata del film si cerca spasmodicamente un appiglio, una massima di una manciata di parole che ci aiuti a capire chi sono questi esseri, salvo poi comprendere che ognuno di noi può considerarli come vuole o, forse, non considerarli affatto.
Appositamente per Gli Sdraiati Claudio Bisio viene portato non a svestirsi della comicità che lo contraddistingue, bensì a impregnarla di quel velo di ironia e malinconia; una patina più cupa ma non per questo meno brillante, che rappresenta l’essenza di Giorgio Selva: un giornalista televisivo separato dalla moglie (Livia, interpretata da Sandra Ceccarelli), con la quale condivide l’affidamento del figlio Tito (Gaddo Bacchini). Quest’ultimo è un adolescente irruento e stressante, un ragazzo ineducato e senza regole, irrispettoso delle basilari norme di convivenza, continuamente irato nei confronti del padre, col quale sembra non esserci alcun barlume di comunicabilità.
Gli Sdraiati: l’eterno racconto dello scontro generazionale in un film per tutte le generazioni
Con Gli Sdraiati gli sceneggiatori Francesco Piccolo e la stessa Francesca Archibugi piombano nel bel mezzo di una vita che potrebbe essere di chiunque. La portano all’estremo al fine di esacerbare il confitto, che esplode davanti agli occhi inermi degli spettatori, lasciati volontariamente all’oscuro di alcuni dettagli della trama. Non buchi, ma perché personali e solitari dei quali non ci è dato sapere ma solo immaginare, magari per incunearsi più facilmente nella propria, di vita, e domandarsi cosa succede a un certo punto. Dove si rompe il rapporto padre-figlio? Dove e cosa ci siamo persi?
Una commedia dalle sfumature drammatiche che mette in scena il fluire dell’esistenza e l’incomunicabilità obbligatoria tra adolescenti e adulti in cui i primi trovano consolazione negli amici e nei primi amori, mentre i secondi si chiudono in una pseudo depressione che forse somiglia alla prima volta in cui vai all’asilo e sai che dovrai stare da sola per una mezza giornata, per la prima volta. Forse i genitori si sentono esattamente così all’arrivo dell’adolescenza dei propri figli: sanno che devono lasciar fare, lasciar andare, che quei bambini stanno diventando grandi e che fuggono all’intimità, ma è dura ammetterlo, è dura (per citare una scena del film) dormire da soli e iniziare a crescere…
Uno scontro generazionale, dunque, oltre che familiare. Nel film Giorgio e Tito sono i protagonisti assoluti, anche se forse a collegarsi al loro noi infranto vi sono fin troppe storie lasciate in sospeso e mai portate a termine, alcune dallo charme apparentemente accattivante.
Gli Sdraiati: un cast impeccabile in cui Claudio Bisio la fa da padrone
La regia, dal canto suo, risulta semplice e senza fronzoli: uno sguardo discreto sul mondo borghese in cui Gli Sdraiati è ambientato. Caratteristica, questa, che potrebbe trasparire come una sorta di verità raccontata a metà, di un grado di difficoltà poco elevato. Ma è davvero così importante? Di fatto l’Archibugi sembra non dare molto peso alla situazione agiata in cui si svolge l’azione, piuttosto allo scontro tra due mondi chiusi in sé; fermo restando che l’habitat borghese nel quale i personaggi si muovono facilita la giustificazione di determinati atteggiamenti che, trasposti in una borgata (per esempio), sarebbero magari passati in secondo piano.
Passando al cast, l’interpretazione di Bisio (incarnazione dell’anima verace di Serra) domina su tutto scaturendo sentimenti contrastanti e lasciandoci calare senza intoppi nel suo stato d’animo. Il suo Giorgio è un uomo che cerca amore, comprensione, un genitore sommerso dai sensi di colpa, dalla volontà di fare meglio, un marito che vorrebbe tornare indietro per non sbagliare e un amante che vorrebbe innamorarsi ancora. Nel suo io si racchiude l’antitesi di due mondi differenti, un po’ come si ripercorre – con le giuste proporzioni – negli altri personaggi.
I giovani interpreti (Ilaria Brusadelli, Matteo Oscar Giuggioli, Gaddo Bacchini, tra gli altri) regalano una prova attoriale essenziale, al pari di tutti gli altri membri del cast che, dalla bravissima e sincera Antonia Truppo a Cochi Ponzoni, passando per Barbara Ronchi, Gigio Alberti, Sandra Ceccarelli, sanno dare anima al film.
Tirando le somme, Gli Sdraiati è un film per i padri, ma soprattutto per i figli; un’opera che sottolinea l’arte della convivenza e l’ebrezza di un caos interiore che (forse) passerà con gli anni, per poi ripresentare il conto ai nuovi adulti: cosa ho sbagliato? Dove mi sono perso? Il semplice eterno ritorno, nonché miracolo, della vita!
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